L'estate scorsa (2010), discorrendo con degli amici sui prodotti del mercato equosolidale, uno di loro, Giulio, mi fece conoscere l'esistenza della Ubuntu Cola, la versione moralmente accettabile della Cola universalmente riconosciuta. Mi incuriosì soprattutto il nome (non mi è mai ancora capitato di assaggiarla), e scoprii immediatamente che anche in Linux (il sistema operativo open-source) girava questo termine.

Di scoperta in scoperta, arrivai alla lingua Bantu (dal quale il termine proviene) nella quale la parola ha tanti siginificati, ma tutti riconducibili al concetto di singolo in relazione alla comunità. E giusto in quei giorni stavo mettendo insieme i pezzi di un complesso musicale (ma che solo musicale non era), che dovuto occuparsi di conversare, appoggiarsi, accompagnare, avvitarsi con, la scena. Proposi quindi subito ai miei amici e colleghi questo nome per la nostra orchestra.

In effetti il nostro ambizioso progetto prevede che noi non si sia un "ensemble" musicale, ma una formazione dedicata alla musica in combinazione a delle rappresentazioni visive.

E, anche in quest'ambito, non ci limitiamo ad accompagnare delle immagini ma, addirittura, a volte ci facciamo accompagnare dalle immagini stesse, rovesciando i ruoli tradizionali dell'attore (o della rappresentazione di esso) e del musicista.

Inoltre non suoniamo solo musica scritta, ma anche improvvisata, passando per tutti gli stati intermedi che ci possono essere tra questi due termini tanto è vero che i musicisti che la animano vengono da quasi ogni tipo di espressione musicale diversa: rock, jazz, colta, leggera, da ballo, tradizionale.

Si può ben capire, insomma, che alla base delle scelte fondative di questo gruppo ci sia a volontà di valorizzare l'apporto di diverse realtà ad un organismo comune, nel preciso tentativo di creare qualcosa di nuovo, di ricercato, di sottilmente "diverso": crediamo, insomma, di fare della ricerca atristica che voglia scoprire nuovi orizzonti della trasmissione emotiva (la nostra definizione di arte, appunto).

E quindi, il termine "Ubuntu" che noi vorremmo vestire, ci sembra particolarmente adatto sia per descrivere la nostra relazione con il pubblico, ovvero le persone che si trovino a partecipare ad un nostro spettacolo, quindi il tentativo di dare un qualcosa in aggiunta al loro vissuto; sia per cercare di spiegare come la singolarità di ognuno dei nostri componenti sia funzionale a creare un insieme che sia più della semplice somma di tutti.

Paolo De Stefano (paolinozz)

Una persona che viaggia attraverso il nostro paese e si ferma in un villaggio non ha bisogno di chiedere cibo o acqua: subito la gente le offre del cibo, la intrattiene. Ecco, questo è un aspetto di Ubuntu, ma ce ne sono altri. Ubuntu non significa non pensare a sè stessi; significa piuttosto rivolgersi la domanda: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare? (N.Mandela)